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Racconti dal Kenya…

11 Gennaio 2017 AUCI 0 Comments

Scelgo di partire perché…

… È strano quando tutto quello che volevi si realizza, immobilizzandoti. Hai aspettato tanto quella singola opportunità capace per sempre di rivoluzionare la tua vita e non sai che farne veramente.

Il 6 agosto, arriva quella chiamata tanto agognata, svegliandomi di soprassalto da un rassicurante sonno estivo: “Ciao Teresa, ti disturbo? Sei stata selezionata per il servizio civile in Kenya”. Ancora con gli occhi semichiusi, chiedevo conferma di quello che avevo appena sentito, e intanto una strana felicità pervadeva il mio corpo indolenzito; ero felice, di quella felicità che non comprendi a pieno. Da quel momento, però, un vortice di dubbi e incertezze mi ha preso per mano per poi lasciarmi andare, solo ora. Il primo gesto di ogni vero viaggio ha qualcosa di lento, molto lento. Nel mio caso, quella lentezza era incarnata dalle mie valigie semivuote pronte a fissarmi per giorni interi.

Non credete a chi si mostra deciso; senza dubbio alcuno, nasconde sensazioni incomprensibili e contradditorie. Lui stesso non può crederci: ha sognato e desiderato per mesi questo momento e ora com’è possibile che non voglia più partire? È qualcosa di inspiegabile. Nasconde, dietro un sorriso splendente, una stanchezza improvvisa, un indefinibile senso di solitudine. Nella sua testa stanno passando, come cavalli al galoppo, mille sagge ragioni che suggeriscono di non andare. La partenza è un momento di inizio e di fine, di fine e di inizio. Bisogna trovare quell’attimo di incoscienza, di follia per cancellare ogni paura, e ne occorre tanta per sciogliere gli ormeggi e mollare la cima che ci tiene legati alla banchina.

Non tutti quelli che lo desiderano, ci riescono. Ed io quasi provo una malinconica comprensione per chi non ce la fa. Ho dovuto farmi forza per cominciare questo viaggio, e chiunque intraprenda un percorso simile sa di cosa parlo. Quando una barca salpa le emozioni si mescolano e non sai più distinguerle. Partire è doloroso, partire è meraviglioso. È malinconia. È adrenalina, è felicità pura. Viaggiare è una condanna, una meravigliosa condanna. Quando si comincia, non si riesce più a smettere. Non si smette di essere nomadi quando lo si è nell’animo. Attenzione però, dobbiamo sgombrare il campo da tutto questo romanticismo. Chi parte sa che non vedrà quei frutti che ha appena piantato. Che dovrà rinunciare a giorni d’amore con la persona amata, che lascerà la terra stabile che fino a quel momento lo accoglieva calorosamente. Chi parte lascia tutte le sue certezze. Perché allora si sceglie di partire? Per me la risposta è forse meno complessa di quanto si possa immaginare; si parte perché non si vuole accettare un’unica rappresentazione del mondo. Chi ama viaggiare è colui che non si accontenta di ciò che vede nell’immediato, di quello che ha davanti ogni giorno, che non riesce a mangiare con le mani degli altri, ha un continuo bisogno di stimoli e non riesce a stare fermo, deve vedere con i proprio occhi quanto vuole raccontare agli altri o semplicemente a se stesso.

Da quando ho comunicato a chi mi sta intorno la mia decisione sono stata sommersa da una valanga di ammirazione e incredulità, molti apprezzano il mio coraggio e la mia audacia, ma io onestamente non ne capisco il perché. Penso a chi invece ha il coraggio di restare nel proprio Paese, penso ad un giovane operaio pronto ad alzarsi ogni mattina all’alba che non ha mai lasciato la sua valle, lui con in mano un mestiere e una famiglia da badare. E capace laddove in non ne sono capace. Mi domando: vale tanto la pena viaggiare senza saper riparare un tetto? Senza sapere della terra come ne sa un contadino? Io non ho le risposte. Sento l’operaio che sistema le tegole di un tetto, lo stesso tetto che ho sopra la testa.  Ho voglia di dargli una mano ma non saprei nemmeno dove iniziare. Mi sento impotente ma allo stesso tempo mi sentirei una vigliacca a non assecondare i miei impulsi. Forse il segreto è proprio questo, conservare i propri dubbi e le proprie paure per farne un motore di cambiamento, mettersi in gioco nel quotidiano, mettersi in moto, continuare a viaggiare,  qualsiasi cosa questo significhi per sé stessi.  Fu cosi, che le valigie avevano smesso di guardarmi ed incredibilmente furono pronte, io ero pronta per cominciare questo nuovo viaggio.

La finestra sul lago

La prima cosa che ti colpisce è la luce, luce ovunque, luce che ti avviluppa e che non ti lascerà più. Eccoci scendere dall’aereo che ci ha portato da Nairobi a Homabay, piccolo villaggio che da pochi mesi ha una pista aeroportuale. Il mio bagaglio a mano non entra nella cabina apposita e sono costretta a sedermi agli ultimi posti come una bimba in castigo. C’è connessione durante il viaggio e i cellulari sono accesi, ma io guardo dal finestrino l’aereo nella sua interezza e quella terra che mi ospiterà per il prossimo anno. L’aeroporto, o meglio dire quel semplice pezzo di terra, è inondato dal sole e noi tutti ne siamo immersi. Intravedo bimbi dai vestiti stracciati che di buon ora seguono l’atterraggio e continuano a fissarci finché non saliamo in macchina. Geremia ci accompagnerà a Karungu, piccolo villaggio sulle sponde del Lago Vittoria, nella regione Migori, la terra dei Luo. Vorrei tanto raccontarvi il viaggio in macchina, quell’ora trascorsa su una strada sassosa, piena di buche e fossi, se non fosse che una stanchezza improvvisa mi impediva di tenere gli occhi aperti.  Non realizzo ancora dove sono e cosa ne sarà di me, preferisco dormire. Strappata brutalmente all’autunno e al freddo occidentale, eccomi nell’abisso ardente dei tropici, dove uomo e paesaggio formano un insieme inscindibile e armonioso, identificati l’uno con l’altro. Penso a come ogni razza è connaturata al proprio paesaggio e al suo clima. Penso a me, con la carnagione pallida, i jeans e quel senso di debolezza che pervade tutto il mio corpo e come in quella giungla possa apparire un elemento spurio, incongruente, dissonante. Eppure, io, la Mzungu (che in swahili viene usato abitualmente per chiunque abbia la pelle chiara), dovrò entrare in questa realtà, dovrò viverla sulla mia pelle. Arriviamo nella missione, al Saint Camillus Hospital. La cura dei dettagli e la bellezza del posto mi colpiscono.  La missione che ci accoglierà per svolgere il nostro anno di servizio civile è un piccolo paradiso in mezzo alle lande desolate della contea circostante. Emergono le prime contraddizioni: la polvere della siccità e il fango delle grandi piogge, l’odore rancido della povertà e la magnificenza dei colori, la miseria senza fondo e il sorriso della gente, la fame dei bambini denutriti e gli alberi carichi di frutta. Scegliamo le nostre stanze, ed io non posso che scegliere quella finestra che affaccia sul lago, da cui osserverò mille tramonti senza stancarmi mai. Sono ancora tramortita dal viaggio eppure ho un senso di calma dentro di me. Sono sbalordita da come non mi manca niente pur avendo lasciato tutto.

La missione

Siamo subito introdotte a tutto lo staff dell’ospedale, dagli infermieri ai medici, dai cuochi alle sarte. Tutti molto cordiali pur conservando un certo distacco. Mi colpisce subito il loro tono di voce, basso. Scopro che è una particolarità dei Luo avere una tonalità ai limiti del comprensibile a cui dovremmo, per forza di cose, abituarci. Di tutti quei nomi e quelle strette di mano, ricordo poco e niente, e quasi mi sento in colpa per non aver assimilato ogni singola sillaba. Siamo soliti pretendere tanto da noi stessi, o almeno cosi sono abituata io, ma voglio darmi tempo. Voglio osservare, capire le dinamiche e darmi il tempo che questo merita. Il St. Camillus Hospital si trova nella parte sud-occidentale del Kenya, sulle rive del lago Vittoria nella provincia di Nyanza, una delle zone più povere del Paese, dove malattie come l’HIV e la tubercolosi sono tra le più diffuse. L’ospedale ha iniziato la sua attività nel 1997 e serve una popolazione di 250.000 abitanti, di cui più del 50% è sotto i 5 anni. Ha una capacità di 140 posti letto e dispone dei reparti di medicina, ginecologia e malattie infettive. Ha una sala operatoria, un laboratorio di analisi, una sala parto con incubatrici, uno studio dentistico ed oculistico e un centro di fisioterapia. L’ospedale dispone inoltre di un pronto soccorso con ambulanza, di una banca del sangue, la farmacia e l’obitorio con celle frigorifere, lavanderia interna e cucina. Le malattie sono in prevalenza quelle delle zone tropicali: malnutrizione, malaria, tifo, forme parassitarie, tubercolosi, polmoniti e HIV/AIDS. Agli ammalati viene garantita l’assistenza sanitaria, il vitto e tutte le attenzione di cui hanno bisogno. Inoltre, dal 2003 è stato introdotto il programma antiretrovirale (ARVT); tra le diverse attività vi sono: counselling, test volontario HIV, prevenzione della trasmissione dell’HIV madre-figlio, la distribuzione dei farmaci antiretrovirali. L’ospedale è ben organizzato ma il modus operandi rimane africano. In Africa tutti devono saper far tutto, non esistono grandi specializzazioni. E facile vedere come velocemente un infermiere può destreggiarsi tra un reparto di pediatria e una sala operatoria. Ovviamente non è oro tutto ciò che luccica, scopriremo con il tempo che c’è chi non fa quasi niente e chi fa tantissimo. Manca la via di mezzo. Molti operatori locali, appena possono, scappano per seminari o workshop, e talvolta si assentano dai turni di guardia senza avvertire o addirittura lasciano da un giorno all’altro il posto di lavoro per poi tornare mesi dopo, disperatamente bisognosi di lavorare. Appare subito chiaro che senza autorità, l’ospedale andrebbe allo sfascio. Gli africani imparano fin da bambini a riconoscere il bianco che si dà da fare per loro e tendono inesorabilmente a servirsene. Laddove c’è la possibilità di delegare ad un bianco, loro lo faranno. E poi ci sono loro, i malati. Sono il meglio che si possa immaginare, non protestano, non si lamentano, affrontano il dolore e la malattia con una dignità impressionante. Camminando per l’ ospedale, difficilmente sentirete urla in sala parto o lamenti in corsia, una pace inconsueta regna sovrana. Ogni mattina passo per il reparto di pediatria e ad accogliermi ci sono solo saluti e sorrisi. Bambini allegri e duri, bambini già adulti. Un giorno, durante il periodo natalizio, come di consueto, passando per il reparto, c’era un bambino completamente ustionato; le bruciature avevano completamente macinato il suo corpicino che giaceva inerte sul letto eppure non c’era alcuna disperazione nel suo volto, nemmeno una lacrima che dimostrasse il suo dolore, nemmeno una. La scena può sembrare agghiacciante ed esternamente si può pensare che ci vuole fegato ad accarezzare il bimbo senza rimanere impressionati ma invece i suoi occhi trasmettevano una calma e una forza cosi grande che non potrò mai dimenticare.

Teresa Baldoni, Casco Bianco in Kenya