Un po’ in ansia ma con la voglia e la curiosità di vedere, osservare, toccare con mano una realtà completamente diversa, mettiamo piede per la prima volta nell’ospedale di San Gemma a Dodoma in Tanzania
Ci siamo, abbiamo voglia di vedere ogni parte dell’ospedale, ma non vi nascondiamo che la curiosità di entrare nel reparto maternità supera di gran lunga qualsiasi altro desiderio in questo momento.
Eccoci qui, siamo arrivate, siamo davanti il reparto maternità, ward 9, vediamo un medico venirci incontro, per fortuna perché non abbiamo la minima idea di come presentarci, cosa dire, siamo un po’ spaventate. Il dottore si presenta e fa lo stesso con tutto il personale della maternità in turno: Vaileth (la caposala con cui instaureremo un bellissimo rapporto), Christina (il suo modo di fare, il suo sorriso, il suo scherzare e il suo “take it easy” ci conquisteranno), Sister Margherita (parla italiano, diventerà la nostra confidente, ci farà ridere e ci farà sentire a casa), con il passare dei giorni incontreremo tutto il resto del personale sanitario: l’ospedale è piccolo, si conoscono tutti. Quindi inizia il nostro primo turno (10/08/23), la realtà che vediamo un po’ ci intimorisce, il pensiero di non riuscire ad essere all’altezza in questo contesto ci ha sfiorato? Si, ma vogliamo esplorare, capire, le nostre teste iniziano ad inondarsi di perché, il nostro istinto di difesa, seppur capiremo essere sbagliato nel corso dei giorni, prevale, non riusciamo a comportarci diversamente, l’idea di “andiamo e ci facciamo sentire” ha la meglio.
Loro non si fidano di noi e noi facciamo lo stesso con loro.
Ma un giorno succede che andiamo a casa e invece di dire “ma cosa fanno? ma come lo fanno? ma dai non si può vedere”, iniziamo a chiederci: “ma effettivamente perché lo fanno? Perché loro prendono determinate scelte piuttosto che altre? Perché loro dovrebbero fidarsi ad occhi chiusi di noi? Perché loro dovrebbero lasciarci fare? Perché dovrebbero fare come facciamo noi e soprattutto chi siamo noi per venire qui e pensare che quello che abbiamo visto e fatto nel nostro contesto, con i nostri tempi e con le nostre risorse è giusto anche qui? Chi siamo noi per non rispettare i loro tempi e i loro modi?”
Ed è così che arriva il momento di metterci in discussione, di avere voglia di dare e ricevere, di metterci davvero in gioco, con la nostra pazienza, la nostra forza di volontà.
Iniziamo a capire che quel voler “andare e fare”, far capire a tutti i costi, non era altro che un senso di appagamento che volevamo provare nei confronti di noi stesse ma che sicuramente non avrebbe fatto sentire appagati loro.
All’inizio é facile partire e dire: “no assolutamente non voglio impormi, sarà uno scambio alla pari”, ma poi sul campo è tutt’altra storia.
Iniziamo quindi a soffermarci sulle piccole cose, sui piccoli dettagli, a guardare l’altra faccia della medaglia, la loro cultura, le loro tradizioni: una mamma che aiuta un’altra con il suo piccolo, un letto condiviso da due donne in dolce attesa, una bibbi (nonna)che porta l’acqua per lavarsi a una donna che non è sua figlia, i parenti di una paziente che ci aiutano a trasportarne un’altra dalla sala operatoria nella stanza, il loro chiamarsi dada(sorella) nonostante non ci sia nessun legame di sangue: Si inizia a scoprire il vero significato della parola condivisione.
Entrare in una stanza piena di donne in dolce attesa, saranno in 10 o anche più, e rendersi conto del fatto che ognuna sa il nome e il letto dell’altra non è meravigliosamente stupendo?
Noi piano piano questo “meravigliosamente stupendo” lo sentiamo sempre più addosso, iniziamo a prenderlo per mano con sempre più passione e intensità, rimanendo noi stesse qui, in un contesto diverso dal nostro ma con maggiori consapevolezze, con valori aggiunti e una visione più ampia del nostro piccolo grande mondo. Grazie Dodoma, grazie San Gemma Hospital.
St. Gemma hospital: L’inizio
Un po’ in ansia ma con la voglia e la curiosità di vedere, osservare, toccare con mano una realtà completamente diversa, mettiamo piede per la prima volta nell’ospedale di San Gemma a Dodoma in Tanzania
Ci siamo, abbiamo voglia di vedere ogni parte dell’ospedale, ma non vi nascondiamo che la curiosità di entrare nel reparto maternità supera di gran lunga qualsiasi altro desiderio in questo momento.
Eccoci qui, siamo arrivate, siamo davanti il reparto maternità, ward 9, vediamo un medico venirci incontro, per fortuna perché non abbiamo la minima idea di come presentarci, cosa dire, siamo un po’ spaventate. Il dottore si presenta e fa lo stesso con tutto il personale della maternità in turno: Vaileth (la caposala con cui instaureremo un bellissimo rapporto), Christina (il suo modo di fare, il suo sorriso, il suo scherzare e il suo “take it easy” ci conquisteranno), Sister Margherita (parla italiano, diventerà la nostra confidente, ci farà ridere e ci farà sentire a casa), con il passare dei giorni incontreremo tutto il resto del personale sanitario: l’ospedale è piccolo, si conoscono tutti. Quindi inizia il nostro primo turno (10/08/23), la realtà che vediamo un po’ ci intimorisce, il pensiero di non riuscire ad essere all’altezza in questo contesto ci ha sfiorato? Si, ma vogliamo esplorare, capire, le nostre teste iniziano ad inondarsi di perché, il nostro istinto di difesa, seppur capiremo essere sbagliato nel corso dei giorni, prevale, non riusciamo a comportarci diversamente, l’idea di “andiamo e ci facciamo sentire” ha la meglio.
Loro non si fidano di noi e noi facciamo lo stesso con loro.
Ma un giorno succede che andiamo a casa e invece di dire “ma cosa fanno? ma come lo fanno? ma dai non si può vedere”, iniziamo a chiederci: “ma effettivamente perché lo fanno? Perché loro prendono determinate scelte piuttosto che altre? Perché loro dovrebbero fidarsi ad occhi chiusi di noi? Perché loro dovrebbero lasciarci fare? Perché dovrebbero fare come facciamo noi e soprattutto chi siamo noi per venire qui e pensare che quello che abbiamo visto e fatto nel nostro contesto, con i nostri tempi e con le nostre risorse è giusto anche qui? Chi siamo noi per non rispettare i loro tempi e i loro modi?”
Ed è così che arriva il momento di metterci in discussione, di avere voglia di dare e ricevere, di metterci davvero in gioco, con la nostra pazienza, la nostra forza di volontà.
Iniziamo a capire che quel voler “andare e fare”, far capire a tutti i costi, non era altro che un senso di appagamento che volevamo provare nei confronti di noi stesse ma che sicuramente non avrebbe fatto sentire appagati loro.
All’inizio é facile partire e dire: “no assolutamente non voglio impormi, sarà uno scambio alla pari”, ma poi sul campo è tutt’altra storia.
Iniziamo quindi a soffermarci sulle piccole cose, sui piccoli dettagli, a guardare l’altra faccia della medaglia, la loro cultura, le loro tradizioni: una mamma che aiuta un’altra con il suo piccolo, un letto condiviso da due donne in dolce attesa, una bibbi (nonna)che porta l’acqua per lavarsi a una donna che non è sua figlia, i parenti di una paziente che ci aiutano a trasportarne un’altra dalla sala operatoria nella stanza, il loro chiamarsi dada(sorella) nonostante non ci sia nessun legame di sangue: Si inizia a scoprire il vero significato della parola condivisione.
Entrare in una stanza piena di donne in dolce attesa, saranno in 10 o anche più, e rendersi conto del fatto che ognuna sa il nome e il letto dell’altra non è meravigliosamente stupendo?
Noi piano piano questo “meravigliosamente stupendo” lo sentiamo sempre più addosso, iniziamo a prenderlo per mano con sempre più passione e intensità, rimanendo noi stesse qui, in un contesto diverso dal nostro ma con maggiori consapevolezze, con valori aggiunti e una visione più ampia del nostro piccolo grande mondo. Grazie Dodoma, grazie San Gemma Hospital.
Antoniana Losito e Letizia Baratta,
Caschi Bianchi a Dodoma, Tanzania con AUCI.
Articoli recenti
Archivi
Categorie
Gallery Image
Subscribe Today
Calendar
Archivi